BPCO & O2terapia

Il Paziente con BPCO in ambito Territoriale: una proposta di cambiamento basata sull’Evidenza Scientifica

Pubblicato su N&A n. 186 di aprile 2008

Autori

Federico Emiliano Ghio (Busnago Soccorso)
Carlo Maria Serini (Misericordia Milano)
Fabio Salvatore Lionti (Busnago Soccorso)
Claudio Ronzani (A.O. Niguarda Ca’ Granda Milano)
Simone Della Torre (Busnago Soccorso)

Introduzione

Il termine “broncopneumopatia cronico ostruttiva – BPCO” descrive un quadro patologico bronco-polmonare, ad andamento cronico, applicato a pazienti con enfisema, bronchite cronica o entrambe queste condizioni. In buona parte dei pazienti che lamentano:

  • dispnea ingravescente nel corso degli anni
  • tosse cronica (per più di tre mesi in un anno per 2 anni consecutivi)
  • scarsa tolleranza alla sforzo
  • ostruzione parziale delle vie aeree a livello del bronchiolo terminale
  • polmoni iperareati
  • deterioramento cronico degli scambi respiratori

è difficoltoso determinare in quale misura siano affetti da enfisema o bronchite cronica basandosi solo sull’ispezione clinica. Nel classificare il tipo di pneumopatia che colpisce il paziente, è abitudine distinguere la condizione predominante che caratterizza il quadro (BPCO “enfisema predominante” o “bronchite predominante”).
La letteratura anglosassone ha coniato una definizione delle due varianti basata sull’analisi degli scambi gassosi; lo squilibrio ventilazione/perfusione è caratteristico dei pazienti BPCO, con conseguente ipossiemia accompagnata o meno da ritenzione di CO2.
Nel merito, l’Insufficienza Respiratoria di Tipo I (ipossiemia con assente o moderata ritenzione di CO2), è frequente in pazienti affetti da BPCO con enfisema predominante. I soggetti con BPCO a prevalente componente bronchitica (Insufficienza Respiratoria di Tipo II), sviluppano invece modesta ipossia e abnorme ritenzione di CO2, (i motivi per cui ciò avviene solo in alcuni soggetto e non in tutti non sono ancora completamente chiariti).
In condizioni fisiologiche, il controllo della ventilazione è regolato da molteplici meccanismi, volti a mantenere un adeguato livello di CO2 ed normale quantità di ossigeno nel sangue. In condizioni normali, il drive respiratorio fa sì che la CO2 circolante venga mantenuta a livelli adeguati, modificando frequenza respiratoria e volume minuto per il conseguire l’omeostasi (pertanto l’aumento della CO2 è connesso all’incremento della frequenza respiratoria e/o del volume minuto per favorirne l’eliminazione). In tale situazione, il livello di ossigeno nel sangue viene automaticamente conservato a valori ottimali. La teoria del “drive ipossico” -in passato non da tutti condivisa- prevede che in pazienti affetti da insufficienza respiratoria di tipo II la cronica ritenzione di CO2 determini l’inefficacia di questo sistema e che la ventilazione venga regolata non più al fine di mantenere adeguati livelli di PaCO2 e PaO2, ma affinché vengano conservati valori di PaO2 sufficienti alla sopravvivenza (drive ipossico). In sostanza, la stimolazione della respirazione non è più data dall’elevata concentrazione di CO2 nel sangue, ma dalla bassa concentrazione di O2. La somministrazione di FiO2% eccessivamente elevate condizionerebbe quindi un aumento della pressione parziale di ossigeno nel sangue tale da sopprimere il drive ipossico, provocando la riduzione della frequenza respiratoria, del volume minuto, l’aumento abnorme della PaCO2 nel sangue, la depressione dello stato di coscienza da carbonarcosi e l’acidosi severa. La ritenzione della CO2 è per altro giustificata dalla presenza di aree polmonari disventilate, soggette a vasocostrizione ipossica; l’aumento della concentrazione di ossigeno inspirato determina vasodilatazione con conseguente aumento della perfusione verso aree dall’inadeguata ventilazione alveolare.
La gestione del paziente affetto da BPCO in ambito preospedaliero è da sempre oggetto di controversie. Nonostante negli ultimi anni siano stati pubblicati numerosi lavori in merito all’argomento, una review operata dalla The Cochrane Collaboration nel 2006 (741 pubblicazioni) dimostrerebbe come non esistano sufficienti evidenze per preferire la somministrazione di bassi o alti flussi di ossigeno nei casi di BPCO riacutizzata. Inoltre, sempre in tempi recenti, molti Autori hanno rivalutato la teoria della soppressione del drive ipossico secondario al conseguimento di valori di PaO2 e SaO2% elevati. Ciò che è invece certo, è che la somministrazione di elevate concentrazioni di ossigeno conducono ad acidosi, aumento della ritenzione di CO2, della mortalità e delle complicanze.

Definizione del problema

Tenendo in considerazione i parametri basali riportati in tabella 1, è necessario che i pazienti gravemente ipossici in seguito a riacutizzazione di BPCO ricevano ossigeno. La depressione respiratoria da somministrazione di O2 rappresenta un problema condizionato dall’inibizione più o meno severa del drive ipossico. L’evidenza scientifica dimostra che l’iperossia è in grado di complicare la prognosi dei pazienti affetti da broncopatia cronico ostruttiva. L’analisi dei lavori selezionati ha consentito di evidenziare che:

  • il pH arterioso all’ingresso in ospedale rappresenta un importante fattore prognostico per la sopravvivenza, con aumento della mortalità nei pazienti con pH < 7.26 (Jeffrey et coll, metanalisi, 95 pazienti);
  • pazienti ipercapnici con PaO2 elevata sono associati ad acidosi severa; in alcuni casi (20.1 %) il pH si è normalizzato alla sospensione dell’ossigenoterapia con FiO2% eccessiva. La normalizzazione del pH si è verificata nel gruppo di pazienti con livelli di PaO2 più bassi all’ingresso in ospedale (Plant et coll, metanalisi, 983 pazienti);
  • la somministrazione di alti flussi di ossigeno causa ritenzione di CO2 e acidosi rispetto ai pazienti trattati con minori concentrazioni di O2 (Murphy et coll, revisione della letteratura dal 1966 al 2000, 8 lavori analizzati);
  • l’aumento della mortalità nella popolazione di affetti da BPCO che ricevono ossigenoterapia con una FiO2% > 0.28% per lungo tempo (Denniston et coll, metanalisi, 97 pazienti).
    Sulla base di questi dati, appare ragionevole proporre revisioni nel trattamento dei pazienti affetti da BPCO in ambito extraospedaliero.

Obbiettivi

Individuare elementi adeguati a modificare il trattamento del paziente con BPCO riacutizzata da parte dei mezzi di soccorso di base.

Discussione

In altri Paesi, tali evidenze hanno portato alla modifica o alla costituzione di algoritmi per il trattamento dei soggetti con broncopatia cronico ostruttiva riacutizzata. Nel 2004, il National Institute of Clinical Excellence di Londra ha emanato una flow-chart nella quale si prescriveva il conseguimento di una SpO2% del 93% durante il soccorso preospedaliero tramite l’utilizzo di maschere con sistema Venturi (in merito, il trattamento prevedeva l’inizio dell’ossigenterapia con una FiO2% del 40% con possibilità di incrementi graduali fino a raggiungere il 93% di SpO2%, e con l’indicazione a ridurre la frazione inspiratoria di ossigeno qualora la SpO2% superasse il 93-94%). Poiché è certo che il periodo di esposizione a FiO2% elevate giochi un ruolo critico, i servizi di emergenza territoriale che operano in aree dove l’ospedalizzazione richiede tempi prolungati dovrebbero prestare particolare attenzione ad una corretta gestione dell’ossigenoterapia. Nonostante l’evidenza scientifica, un lavoro di New et al., sottolinea come ancora l’80% dei pazienti con BPCO riacutizzata giunga al Dipartimento di Emergenza ed Accettazione in condizioni di acidosi e iperossia come conseguenza di somministrazione eccessiva di O2 in ambito territoriale (per altro, tale studio era stato eseguito in area urbana, a riprova che anche brevi esposizioni a concentrazioni di ossigeno eccessive sono in grado di influenzare negativamente la prognosi del paziente). Pur tenendo bene in considerazione la necessità di mantenere la PaO2 in a livelli tali da consentire il corretto metabolismo cellulare, evitando pericolose complicanze da ipossia, stabilire se il soggetto è effettivamente affetto da broncopneumopatia cronico ostruttiva rappresenta la discriminante per impostare l’intervento terapeutico. Spesso, l’impossibilità di definire con certezza se il soggetto ne è affetto non consente ai soccorritori di base ed ai sanitari della Centrale Operativa 118 di intraprendere o indirizzare il trattamento più adatto. Inoltre, la maggior parte dei mezzi di soccorso di base e avanzato sono sprovvisti di maschere a sistema Venturi e cannule nasali, utili per una gestione adeguata di questi pazienti. In molte realtà, tali presidi sono stati rimpiazzati da anni con maschere facciali dotate di reservoire, in grado di garantire elevate concentrazioni di ossigeno ma gravate dalla necessità di utilizzare un flusso superiore o uguale a 6 litri al minuto per garantire il corretto wash-out dell’anidride carbonica. Sia le maschere facciali con o senza reservoire che le cannule nasali per ossigenoterapia non consentono un controllo adeguato della frazione inspiratoria di ossigeno.
L’utilizzo di maschere con sistema Venturi, consente la somministrazione di O2 a concentrazione fissa, indipendentemente dal flusso di ossigeno erogato, in quanto l’aria convogliata in aggiunta al flusso di O2 impostato è proporzionale al flusso di O2 stesso. Tali strumenti consentono un controllo della FiO2% particolarmente fine: tramite gli appositi regolatori colorati è possibile conseguire FiO2% dello 0.24, 0.28, 0.35, 0.40, ecc.

Conclusioni

Benché l’evidenza scientifica vada in una direzione, è necessario tenere in considerazione alcune delle maggiori problematiche che, all’attualità, costituiscono ostacolo al cambiamento:

Difficoltà nel riconoscere i pazienti con BPCO: il problema è relativo nei pazienti in ossigenoterapia domiciliare a lungo termine, o nel caso in cui essi stessi riferiscano durante la richiesta di soccorso di soffrire di tale patologia. E’ del resto assodato che molti utenti, interrogati circa la loro anamnesi, dimentichino di riferire elementi importanti. Per ovviare a questo problema, dovrebbe esistere un “continuum” tra i Medici di Medicina Generale e il Sistema di Urgenza Emergenza. A tal proposito, risulta particolarmente interessante l’esperienza condotta da Gooptu et coll. nell’Essex (UK); l’uso di una “alert card” in possesso di pazienti affetti da BPCO, ha consentito agli equipaggi di soccorso il riconoscimento precoce della patologia nel 63% dei casi e la somministrazione di ossigeno a concentrazioni corrette tramite una maschera con sistema Venturi appositamente consegnata al soggetto in occasione dell’ultima dimissione ospedaliera;

  • Assenza di protocolli operativi concepiti per gli equipaggi delle ambulanze di base. E’ stato dimostrato che l’adozione di apposite linee guida ha concretamente ridotto la percentuale di complicanze dovute ad un uso incongruo dell’ossigenoterapia;
  • Scarsa formazione dei soccorritori di base al riguardo: gli stessi dovrebbero essere addestrati a riconoscere e a segnalare al Medico/Infermiere della Centrale Operativa 118 la presenza di un paziente affetto da BPCO;
  • Mancanza di materiali dedicati: sulla gran parte dei mezzi di soccorso di base non sono presenti maschere Venturi o cannule nasali per ossigenoterapia. Il sistema Venturi rappresenta di gran lunga il presidio migliore per controllare con accuratezza la FiO2% a costi accettabili (il costo di tali strumenti è infatti contenuto, e sostenibile da tutti gli enti di soccorso). Più lavori hanno dimostrato la superiorità delle maschere con sistema Venturi nella gestione di questi pazienti e l’aumento delle complicanze legato a maschere con o senza reservoire.
  • Nei pazienti con Insufficienza Respiratoria Ipossiemico-Ipercapnica (spesso in ossigenoterapia domiciliare) l’obbiettivo deve essere rappresentato dal raggiungimento in tempi brevi, di una SpO2% pari al 94%.
  • In alternativa a maschere di Venturi o altri sistemi di somministrazione di ossigeno; si consiglia l’utilizzo di cannule nasali in possesso dei pazienti (flusso massimo di O2 consentito 6 L/m), o di maschere facciali senza reservoire o con reservoire escluso (mantenuto collabito o “annodato”). Lo stretto monitoraggio di questa categoria di pazienti è imperativo.

Agli autori è ben chiaro come la possibilità di aggravare o non trattare l’ipossia rappresenti un rischio derivato dall’introduzione di nuove strategie di trattamento per gli utenti con BPCO. Tuttavia, sulla scorta dei dati presentati e dall’esperienza di altre realtà, tale elemento non dovrebbe costituire freno al miglioramento della qualità del servizio (misurata in termini di outcome e complicanze) offerta a questa popolazione di pazienti.